Due settimane dopo, la cronaca del Corriere della Sera annotava che due donne, nella Galleria Vittorio II a Milano, erano state letteralmente assediate per aver osato vestire quello strano ibrido tra gonna e pantaloni che il mondo anglosassone e francese aveva già, non senza difficoltà, sdoganato. Nel 1895, il poeta simbolista Stéphane Mallarmé, dialogando con Charles Morice per Le Gaulois, così rispose alla domanda su come debba vestirsi una donna per andare in bicicletta.
Così, mentre il resto del mondo (evoluto), pur con le sue titubanze, elevava la bicicletta a simbolo delle istanze emancipatorie femministe, mentre le suffragette alla ricerca del voto femminile in Gran Bretagna usavano e sbandieravano la bicicletta come strumento amico e liberatorio, mentre il sociologo statunitense Thorstein Veblen, a fine 1800, definiva il corsetto l’impedimento più efficace a ogni attività fisica utile, al pari della gonna o dei tacchi delle scarpe, l’Italia più conservatrice e cattolica, le femministe stesse, non capirono, anzi negarono, la portata rivoluzionaria della semplice bicicletta.
Mai compagna di dolce vita, piuttosto protagonista, con Ladri di biciclette (1948) del neorealismo cinematografico italiano e della fatica di sbarcare il lunario, “la bicicletta”, conclude il professore, “è oggi portatrice di un nuovo umanesimo”: di felicità gentile, di moderna sostenibilità, di uno stile di vita più sano e compatibile con il grido di allarme di Greta Thunberg. A chi come lei grida “ci state rubando i sogni.